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Quando il debitore è una pubblica amministrazione, il termine di pagamento, di regola, è di massimo trenta giorni, ma cosa succede se, come accade quasi sempre, si verifica un ritardo nel pagamento di somme dovute a seguito di sentenza?
Una sentenza del T.A.R. del Lazio [1], adito in un giudizio di ottemperanza promosso da un creditore, ha affrontato il tema condannando il Ministero della Giustizia a pagare, oltre alle somme dovute ed agli interessi, anche il danno così come è stato previsto dal Codice della Pubblica Amministrazione [2].
La novità consiste nel fatto che tale risarcimento sanzionatorio è previsto, di regola, nel caso di inosservanza successiva all’ordine di pagamento da parte del Giudice amministrativo.
Nel caso in esame, invece, il ritardo era preesistente all’avvio del giudizio di ottemperanza.
Il ricorrente chiedeva che il TAR:
– dichiarasse l’inottemperanza dell’amministrazione all’obbligo di provvedere al pagamento delle somme, assegnando per l’effetto un congruo termine per adempiere;
– disponesse che a tanto provveda, per il caso di perdurante inadempimento, un “commissario ad acta”;
– condannasse il ministero inadempiente al pagamento di una somma [3], nella misura ritenuta di giustizia.
La motivazione della sentenza, mentre ritiene che una tolleranza di sei mesi sia ammissibile per il completamento dell’iter procedimentale, reputa che il superamento di tale periodo leda irrimediabilmente l’interesse del privato ad ottenere il pagamento in tempi ragionevoli essendo il “quando” elemento altrettanto importante del “se”. Tutto ciò in linea con gli orientamenti espressi dalla CEDU nel procedimento Gaglione-Cocchiarelli.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione molto attesa ed in linea con il superamento di una concezione arcaica e sovrana dell’Amministrazione pubblica rispetto agli amministrati. Interessante anche il fatto che il T.A.R. non giustifica il ritardo neppure se esso è dovuto alla mancanza di capienza del capitolo di bilancio: è questo, spesso, il motivo del ritardo. Non è raro in questo caso che l’appostamento della spesa come “debito fuori bilancio” sia assoggettata a compromessi di carattere politico e discrezionale non più ammissibili in un tempo di sempre più intensa richiesta di efficienza alla macchina burocratica pubblica.
Si tratta, in definitiva, di una sentenza che potrebbe aprire un varco nel tradizionale rapporto tra cittadino e pubbliche istituzioni. Ma che non risolve, ed è questo forse il problema principale, la madre di tutte le questioni, e cioè la cronica mancanza di liquidità derivante dalla pesante situazione economica.
Avv. Vincenzo Rizza del Foro di Ragusa*
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