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Nel 2015 l’Amministrazione Difesa ha costituito un Comitato tecnico scientifico (Board) per lo studio dei disturbi mentali nel personale militare che rappresenta il primo organismo interforze di osservazione, monitoraggio e gestione dei disturbi mentali e che dovrebbe favorire, tra l’altro, la valutazione dei processi di reale incidenza dei Disturbi Post Traumatici da Stress (DPTS) nei militari. Ad oggi non sono stati pubblicati in merito dati epidemiologici in Italia, ma solo delle linee guida, ispirate al DSM V per i clinici e i medici direttori del servizio sanitario, i cosiddetti DSS, che dovrebbero essere, elemento di rilevazione sul territorio di tale incidenza.
Nel complesso il Comitato stesso dichiara che il suo intento è di avviare “un’operazione di depatologizzazione, riducendo i processi di stigmatizzazione istituzionale che a volte operano come sfondo alla dissimulazione di un disagio, che così si cronicizza e prende vie più perniciose per l’individuo e per il gruppo cui appartiene.”
E da qui vogliamo partire in quanto il focus del problema, relativamente all’incidenza e all’eventuale cura di questo disturbo nelle nostre Forze Armate, è proprio la stigmatizzazione. I suicidi non hanno rilevanza in merito, in quanto, come dichiara l’Osservatorio Epidemiologico della Difesa: “L’andamento del fenomeno suicidario per quanto riguarda il contesto militare, risulta essere contenuto da un punto di vista numerico rispetto a quanto si riscontra nella popolazione civile.
Su un piano qualitativo, le variabili ad esso associate, i cosiddetti fattori di rischio e fattori protettivi, risultano essere sovrapponibili a quelle significativamente correlate al suicidio nella popolazione generale” (Bollettino Epidemiologico della Difesa)
Nel processo mediatico costruito su questa patologia sono state scritte tantissime cose, alcune profondamente vere, altre fuorvianti e distanti dalla realtà, almeno nel nostro Paese.
Parlare di DPTS fa notizia, soprattutto se si riesce a mettere in prima pagina storie vere di uomini che in qualche modo ne sono stati colpiti.
Il gap sta nel fatto che la maggioranza preferisce non parlare a meno che non scelga, avendo le carte e i numeri in mano, la strada per un possibile pensionamento iniziando pertanto una battaglia tutta personale. Nel processo di stigmatizzazione quindi, rispetto a questo disturbo, la maggior parte di coloro che ne soffrono preferisce nascondere anche a sé stesso di rientrare in quella che possiamo chiaramente definire “zona grigia”.
E’ facile trovare articoli o notizie con impostazioni teoriche di varia provenienza su soldati e sui problemi connessi alle conseguenze di impieghi all’estero , ma soprattutto in riferimento a chi, prima e meglio dell’Italia, se ne è occupato.
In primis gli Stati Uniti ma oggi anche diversi Paesi europei affrontano il problema. Non l’Italia dove il fenomeno, risulterebbe inesistente. Torniamo un attimo indietro e cerchiamo di capire cosa è accaduto prima del 2015 quando ancora il Comitato tecnico Scientifico non era stato costituito.
Il Deputato Americo Porfidio nel settembre 2011 chiese in Commissione Difesa delucidazioni in merito: “Nel Nord Europa – cito le parole dell’Onorevole – la media di DPTS tra i contingenti militari è del 4-5%, all’interno di una stima del 10% di manifestazioni minori del disturbo.
Si arriva al 20-30% negli Stati Uniti, si scende di poco in Canada, mentre in Gran Bretagna la Difesa dichiara un 3%, dato smentito dalle cronache: infatti circa il 10% dei detenuti nelle carceri britanniche (20 mila persone) provengono dalle forze armate, quasi tutti incarcerati per violenze (soprattutto domestiche) legate all’abuso di alcool e droghe.
Il fenomeno è emerso con forza in Olanda, Norvegia, o Danimarca, che se ne sono fatti carico creando centri specializzati che seguono i militari nel percorso di riadattamento alla vita civile”.
Le stime dell’incidenza delle conseguenze per la salute mentale (ad esempio, DPTS, suicidio, depressione e altre condizioni ad essa collegati come problemi relazionali e familiari) variano drasticamente tra le varie nazioni che hanno inviato contingenti militari in zone di guerra.
E’ anche evidente che le strategie di campionamento sono differenti, i metodi e i criteri di valutazione come la considerazione di altri fattori di rischio, come ad esempio l’età e le esperienze di combattimento, rendono marcatamente differenti le stime di incidenza e fare paragoni tra i diversi Paesi può risultare fortemente fuorviante.
Porfidio chiese se il Ministero fosse in possesso di una mappatura aggiornata del fenomeno e se qualora non avesse informazioni in merito fosse opportuno istituire “una struttura di studio per analizzare il fenomeno DPTS con la massima attenzione dovuta e sostenere le persone colpite nel percorso di inserimento nella società, anche al fine di scongiurare l’ipotesi dell’esistenza di una patologia che pur ledendo l’integrità psicofisica non sia riconosciuta dal nostro ordinamento, in violazione del diritto alla salute costituzionalmente garantito.”
L’allora sottosegretario Giuseppe Cossiga rispose all’interrogazione sottolineando come fosse in corso un censimento su tutti i disturbi connessi all’impiego nei teatri operativi.
Questi sono i dati a nostra conoscenza fino ad oggi: “267 casi di DPTS nelle Forze armate, di cui 3 casi riguardanti militari rientrati dai teatri operativi per esigenze sanitarie e trasferiti presso il Policlinico Militare Celio (struttura ROLE 4, ovvero livello nazionale della organizzazione sanitaria della NATO), nel periodo compreso da maggio 2005 ad agosto 2011”.
A marzo 2012 l’Onorevole Di Stanislao rincarò la dose e chiese informazioni al Ministero della Difesa: “se e come il Governo prenda in considerazione le patologie psico-fisiche che possono colpire i soldati impegnati in missioni all’estero e se non ritenga necessario avviare iniziative che tutelino pienamente la salute fisica e mentale dei soldati durante la partecipazione alla missione e al rientro in Italia.”
Il Ministro, annoverando le già conosciute prove di selezione, che andrebbero ad analizzare le componenti caratteriali e psico-attitudinali dei concorrenti sostenne che: “il personale individuato per l’impiego in teatro operativo viene sottoposto ad apposita visita medica di idoneità e vengono, altresì, realizzate per i reparti dell’area operativa, a cura di ufficiali psicologi, cattedre itineranti relative alle attività di supporto psicologico e di stress management” ed inoltre “lezioni e conferenze su varie tematiche sanitarie, con peculiare attenzione alle psicopatologie reattive a situazioni stressanti (disturbo post traumatico da stress e patologie correlate)”.
Infine concluse che sia per Esercito che per la Marina, sono stati istituiti (rispettivamente, nel 1989 e nel 1986) presso le relative strutture sanitarie i consultori psicologici che svolgerebbero l’attività di formazione, di prevenzione e di trattamento del disagio psicologico e dei disturbi psichiatrici nei confronti del personale militare e dei loro familiari.
Tra le parole di chi ha vissuto sulla propria pelle il disagio determinato da tale patologia, si evidenzia una sostanziale differenza di prospettiva Nessuna selezione, nessun addestramento può impedire l’insorgere del DPTS in un militare che magari è saltato in aria con il lince e ha visto il suo conduttore spappolarsi per tutto il mezzo.
Molti veterani colpiti da tale disturbo lamentano inoltre la mancanza di supporti efficaci al rientro in Patria dal teatro operativo: le visite mediche di controllo dei dirigenti del servizio sanitari e ufficiali medici si limitano a monitorare lo stato fisico generale attraverso mere analisi diagnostiche strumentali.
Con ciò non possiamo certo affermare che ogni soldato rientrato da missioni difficili sia un possibile caso. Cerchiamo dunque di spiegare cosa sia questo mostro tanto temuto, quale il disturbo post traumatico da stress (DPTS) in ambito militare.
La realtà è che si impara dall’esperienza sul campo, soprattutto clinico, che c’è una linea sottile che differenzia il Combat stress dal DPTS, due condizioni completamente diverse, contrariamente a quanto scrivono alcuni.
E’ necessaria una specifica conoscenza, e altrettanta esperienza, prettamente clinica e formativa, per differenziarli e non cadere nella trappola costituita dalla presenza di una sintomatologia a tratti comune.
Per definizione, Combat Stress è una reazione prevista e prevedibile a esperienze di combattimento.
Dopo essere stati in una zona di combattimento in cui si è costantemente sotto stress fisiologico (cattiva alimentazione, le temperature estreme, poche opportunità di una buona igiene personale, etc.) sotto stress psicologico (preoccupazioni ordigni esplosivi improvvisati, cecchini o la morte dei compagni), tale condizione di iperarousal è funzionale ed adattiva al contesto.
Il combat stress è considerato una reazione normale a circostanze traumatiche.
PTSD, d’altra parte, si riferisce ad un disturbo psicologico che pregiudica il funzionamento globale della persona e perdura, nella sua sintomatologia, ben oltre i trenta giorni successivi agli eventi critici; in alcuni casi, si manifesta anche a distanza di mesi.
Il disturbo post-traumatico fa parte della sfera dei disturbi d’ansia e si ascrivono tali sintomi in associazione ad eventi oggettivamente traumatici (incidenti, stupri, attentati, terremoti). Si determina spesso una iper attivazione del sistema nervoso che è in costante condizione di allarme manifestando anche importanti sintomi fisici come disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, rabbia ed impulsività.
La mente è sovraccarica e cerca di collocare in un posto affidabile un evento che ha determinato disequilibrio e disorientamento, per farlo attiva tutte le sue energie in attività dispendiose, per quanto inutili. Sono presenti paure intense, ricordi continui ed intrusivi e il tentativo di annullarli evitando attività, situazioni e persone che portano a rivivere l’evento stesso.
Caratteristica importante di questo disturbo è pertanto la negazione, fattore strutturali di meccanismi di difesa atti a dare una parvenza di protezione dal trauma, ma che in realtà servono solo a rafforzarne gli effetti. La mente nega, ma il corpo reagisce.
L’Ordine degli Psicologi del Lazio nella sua valutazione psicologico-giuridica del danno biologico-psichico attribuisce al Disturbo post traumatico da stress una compromissione della qualità della vita che può andare dal 6% all’80%.
Dunque, una compromissione anche grave della funzionalità personale e sociale di un individuo.
Mentre importanti progressi sono stati fatti nel corso degli ultimi decenni nella comprensione e nel trattamento dei sintomi di DPTS, permangono, a nostro avviso, lacune significative nell’applicazione e divulgazione delle conoscenze oltre a diversi problemi irrisolti.
La ricerca epidemiologica sul DPTS e le sue incidenze sulla salute mentale dei nostri soldati al rientro dalle missioni all’estero, spesso contestate da una parte attiva della nostra popolazione, ha notevoli conseguenze politiche quanto economiche.
La mancanza di una incidenza significativa renderebbe il problema inesistente e quindi non sarebbe necessario farne oggetto di indagini ulteriori o di concettualizzazione sulla sintomatologia connessa a uno status così controverso come quello del soldato in rientro dalla guerra.
Tale risultato potrebbe rappresentare una giustificazione alla mancanza nel nostro sistema sanitario di tutti quegli strumenti integrativi e di supporto ai veterani che invece sono presenti negli Stati Uniti (ad esempio il Department of Veterans Affairs) e in altri Paesi europei.
In Italia, pertanto, ai nostri soldati non resta che negare essi stessi il loro disagio per paura di essere abbandonati dall’istituzione, di perdere il proprio lavoro o i benefit conquistati fino a quel momento, sperando che tutto passi, che il tempo li aiuti a guarire le loro ferite. Quando, a distanza di tempo, il sistema protettivo che si sono costruiti inizia a vacillare cercano supporto all’esterno, nel contesto civile.
Il contesto civile è sicuramente pronto clinicamente ad accogliere e curare i disturbi provenienti da traumi connessi ad eventi critici, ma quanti di questi clinici hanno una cultura militare e soprattutto conoscenza delle dinamiche della vita militare ancora non è un dato conosciuto.
Non esiste una formazione in psicologia militare che possa essere acquisita dai clinici che in ambito civile vogliano dedicarsi a tale ambito. Una approfondita formazione di tali dinamiche e una esperienza in tal campo è fondamentale per impedire che il processo di stigmatizzazione possano insinuarsi e fecondare.
Ci sono delle terapie psicologiche considerate comunque più efficaci di altre nella cura del disturbo post traumatico e tale formazione, ad opera in Italia della Associazione EMDR Italia è accessibile a tutti gli psicologi, medici e psicoterapeuti che lo desiderano. Terapia che richiede due livelli di approfondimento e oggi annovera diversi terapeuti che se ne avvalgono. Il Ministero della Difesa dichiara che gli stessi psicologi militari possiedono tale formazione.
L’EMDR è considerata pertanto una terapia d’elite e l’International Society for Traumatic Stress Studies la annovera addirittura nelle linee guida per il trattamento del Disturbo Post Traumatico da Stress. Questa tecnica, già applicata con successo sui reduci del Vietnam, considera il DPTS un disturbo dei processi di memorizzazione del trauma.
Le informazioni legate alle esperienze traumatiche non sempre vengono elaborate completamente, le percezioni iniziali saranno immagazzinate essenzialmente come sono state nello stimolo iniziale, insieme a pensieri distorti o percezioni sperimentate al momento dell’evento. La mancata elaborazione della informazione neurobiologica continua ad attivare le stesse risposte emotive ed immaginative anche a distanza di tempo.
L’EMDR favorisce la “transmutazione” di queste esperienze immagazzinate disfunzionalmente in una risoluzione adattiva che favorire la salute psichica.
L’utilizzo di movimenti oculari ritmici permettendo di rivivere di seduta in seduta, attraverso un protocollo strutturato, l’esperienza dell’evento traumatico, fa si che l’attività dei due emisferi venga risincronizzata permettendo un’elaborazione “accelerata” dell’informazione.
In genere in 3-6 sedute il 77-100% ha una remissione del DPTS in vittime di traumi singoli, che salgono a 12 sedute invece per coloro che sono considerati vittime di traumi multipli come ad esempio i reduci.
L’EMDR è comunque tecnica terapeutica che viene utilizzata ad oggi, con una buona risoluzione di diversi disturbi e di traumi considerati anche minori.
Tra i nuovi casi di DPTS emergono anche quelli di giornalisti, embedded o meno, tornati da territori colpiti dal terrorismo e dalla guerra civile, a dimostrazione che tutti coloro che sono sottoposti a situazioni a rischio e di grande impatto emotivo possono presentare tale disturbo.
Non esiste giubbotto antiproiettile in grado di tutelare dai colpi emotivi di eventi critici, dalla perdita di un collega, di un amico, dalle immagini forti di un’esplosione, dai corpi riversi per terra.
Esiste una struttura di personalità più o meno adatta a sostenere gli urti degli eventi traumatici, esiste un addestramento sul campo in cui si sperimentano dal vivo situazioni stressanti e altamente traumatiche, ma tutto ciò non ha mai la stessa intensità di quando ci troviamo in carne ed ossa a contenere la ferita mortale di un amico con il quale fino a pochi secondi prima si condivideva una birra, o di un bambino fotografato qualche secondo prima con il sorriso sulle labbra.
La prevenzione è stata ed è un fattore fondamentale nella tutela della salute mentale. Per fare prevenzione bisogna sapere cosa, come e quando le difese crollano,. Solo la zona grigia, quella di chi non parla e preferisce curare le sue ferite da solo, solo i numeri che non sono numeri, i casi che ufficialmente non esistono possono dirci in che direzione oggi il nostro Paese può andare.
*La Dott.ssa Rachele Magro, psicologa e psicoterapeuta, proviene da una lunga esperienza nell’ambito della cura e prevenzione della PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress). Per anni è stata presidente di una sede territoriale dell’ASPIC, scuola di formazione in Counseling e ha all’attivo una lunga esperienza da formatore e da clinico.
Ha pubblicato due libri sulle problematiche della military lifestyle con l’editore Psiconline: Cuore di Soldato (2012) e Oltre le Stelle (2014) e numerose pubblicazioni di settore in ambito accademico. Da diversi anni è anche la Responsabile nazionale del servizio psicologico alle famiglie dell’Altra Metà della Divisa. (www.laltrametadelladivisa.it)
Foto: Buzz Feed, PNJ.co
m, Daily Chronic,Wired, UIs Army e web
FONTE: ANALISIDIFESA.IT