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Un mese di tempo per le alleanze, e verifica delle prerogative sindacali fra due anni. Sulla base di questa soluzione ponte è arrivato l'accordo fra i sindacati e l'Aran, l'agenzia che rappresenta la pubblica amministrazione come datore di lavoro, che dà il via libera alla riduzione a quattro (più Palazzo Chigi) degli undici comparti in cui è divisa oggi la Pa italiana: un passo, quello compiuto questa notte dopo mesi di tira e molla, che apre una nuova grande partita politica, perché pone le condizioni per il rinnovo dei contratti a tre milioni di dipendenti pubblici sbloccati ormai da otto mesi dalla sentenza 178/2015 della Corte costituzionale. L'intenzione della ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia, ora, è di chiamare i sindacati per un tavolo di confronto, per ascoltare le loro richieste sia sul piano dei contratti sia su quello del nuovo testo unico del pubblico impiego, pilastro della seconda parte dell'attuazione della riforma della Pa attesa entro l'estate.
Nessuna «defezione»
Proprio per questa ragione le tante perplessità sul riordino espresse dal fronte sindacale hanno portato solo a una serie di correttivi al testo proposto dall'Aran, senza fermare l'intesa che viene sottoscritta da tutte le sigle al tavolo. Troppo forte, infatti, si è rivelata l'esigenza di far andare avanti la macchina, per riportare al Governo la patata bollente dell'obbligo di avviare le trattative sui contratti, congelati da sei anni: ora la questione si fa incandescente, perché i sindacati in coro hanno già fatto sapere che i 300 milioni di euro messi in campo dalla legge di stabilità (a cui si aggiungono le risorse che Regioni ed enti locali devono trovare nei propri bilanci) non sono sufficienti nemmeno per avviare il confronto.
La riforma
L'accordo arrivato era in realtà atteso da sette anni, perché la riduzione dei comparti pubblici, con l'obiettivo di arrivare a quattro contratti nazionali nel pubblico impiego invece degli undici attuali e di semplificare il quadro di distacchi e permessi, era prevista dalla riforma Brunetta del 2009, che imponeva la razionalizzazione prima della successiva tornata contrattuale. Nel 2010, però, la gelata della finanza pubblica ha bloccato i rinnovi dei contratti, e la questione, spinosa, è stata messa da parte per ritornare al centro dell'attenzione nei mesi scorsi, dopo che la Corte costituzionale ha sancito che il blocco non può essere eterno.
Quattro settori
Sul piano pratico, l'intesa appena firmata divide la pubblica amministrazione in quattro settori divide la Pa in sanità, «poteri locali», «istruzione e ricerca» e «poteri centrali». Dalla griglia dei quattro comparti indicata dall'Aran rimane esclusa la presidenza del Consiglio, che con i suoi 1.900 dipendenti e 300 dirigenti continuerebbe a rimanere isolata in un comparto a sé perché nessuno dei decreti attuativi della riforma Brunetta ne prevede l'inclusione nel meccanismo generale.
La finestra per le alleanze
Sanità ed enti locali escono quasi immutati dalla riforma (la dirigenza amministrativa di Asl e ospedali va nei poteri locali), che però unisce l'università e la ricerca alla scuola e mette insieme in un unico comparto il resto dell'amministrazione centrale, oggi divisa fra ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici e così via. Per trattare sui contratti, e partecipare alla distribuzione di permessi e distacchi, ogni sigla sindacale deve raggiungere almeno il 5% nella media di voti e deleghe, e se il comparto di riferimento si allarga naturalmente aumenta il numero di adesioni necessarie a superare questa soglia: di qui l'idea della finestra per le alleanze, che chiede alle sigle sindacali di deciderle in 30 giorni, per poi formalizzarle successivamente.
Doppio binario per i contratti
Sul piano della sostanza, che interessa più da vicino i dipendenti pubblici, è stato confermato il principio per il quale la fusione di comparti oggi divisi non produrrà subito regole uguali per tutti, perché i contratti nazionali potranno essere divisi in «parti comuni», sulle regole di base come ferie, malattie e permessi, e «parti speciali» per regolare gli aspetti «peculiari» del rapporto di lavoro: una strada obbligata per non scontrarsi con l'unificazione impossibile di realtà diverse fra loro, caratterizzate da livelli stipendiali molto differenziati. Superato questo scoglio ci sarà da parlare dei contratti, e a quel punto il problema tornerà a investire il governo chiamato a proporre un rinnovo con 300 milioni sul piatto.
FONTE IL SOLE 24 ORE