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La Cassazione conferma la linea del rigore sulle morti da amianto. Per evitare la condanna per omicidio colposo del dipendente, al datore di lavoro non basta essersi adeguato alle norme preventive dell’epoca dei fatti, essendogli richieste «ulteriori misure preventive» di salvaguardia della salute. E in tema di prescrizione del reato, inoltre, la Suprema Corte, dribbla ancora una volta il tema della «latenza reale» della malattia professionale e anche quello della teoria della «dose scatenante» da cui ricavare il tempus commissi delicti, ritenendo invece sufficiente- per soddisfare il nesso di causalità - la continua esposizione all’inquinante.
Con la sentenza 11128/15 depositata ieri, la Quarta penale torna sulla drammatica questione delle morti da mesotelioma, respingendo quasi in blocco l’articolato ricorso di cinque ex dirigenti dello stabilimento palermitano della Fincantieri-Cantieri Navali Italiani spa.Nelle sentenze di merito del 2010 e 2012 relative a fatti molto risalenti nel tempo - come è purtroppo normale per patologie di questo tipo - i giudici siciliani avevano accertato la responsabilità omissiva degli imputati per 43 decessi e per 19 casi di lesioni personali gravi o gravissime. Tra le questioni sollevate dalla difesa nel giudizio di legittimità, l’alternatività della causa - secondo cui l’innesco della patologia sarebbe stato possibile anche in ambito extra lavorativo con esposizione a basse dosi, nonchè per l’abitudine al fumo di sigaretta - e in seconda battuta il momento esatto dell’insorgenza della malattia, da individuare nella comparsa della prima cellula cancerosa.
Ma su entrambi i punti la Quarta penale, nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata (da ultimo 24997/12) , è stata tranciante: «Le patologie tumorali (sia il carcinoma polmonare che il mesotelioma) devono considerarsi “dose correlate” nel senso che il loro sviluppo, in termini di rapidità e gravità, appare condizionato dalla quantità di sostanza cancerogena inalata dal soggetto». Pertanto non è dirimente individuare la “dose innescante” quanto le esposizioni successive che, in sostanza, accorciano la latenza della malattia portandola agli esiti infausti del suo normale decorso.
Questa impostazione incide quindi anche nella determinazione della prescrizione del reato, facendo decorrere il calcolo del tempo dalla cessazione dell’esposizione all’amianto, e non da altri parametri.
E quanto al nesso di causalità tra omessa adozione di misure protettive idonee e il decesso del lavoratore, la Corte sottolinea che questo sussiste ogni volta che «deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa (cioè l’adozione di misure di protezione, ndr) avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo di latenza».
Per liberarsi dall’imputazione, al datore non basta dimostrare di essersi adeguato agli standard di prevenzione richiesti all’epoca dei fatti - considerato tra l’altro che la «pericolosità dell’amianto è nota fin dal 1964 - poichè in caso di morti da amianto «il datore ne risponde anche quando, pur avendo adottato le norme preventive all’epoca dell’esecuzione dell’attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto di contrazione della malattia, assolvendo così all’obbligo di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro». Alessandro Galimberti