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All'alba del 2017, le caserme si rivelano ancora come luoghi nei quali anche diritti costituzionalmente pacifici (come quello della presunzione di innocenza) tardano ad affermarsi ed, anzi, vengono progressivamente limitati.
La sfida di quest'anno potrebbe essere, quindi, quella di verificare se, dopo il benefico innesto nel mondo militare delle donne (notoriamente più coraggiose e battagliere degli uomini nel far valere i propri diritti), analogo benefico effetto sortirà il transito di circa 7000 forestali nei Carabinieri e (in minor misura) nella Guardia di finanza. Quanto meno al fine di riprendere una seria meditazione sullo stato dei diritti dei militari, da troppo tempo tralasciata e delegata a quei pochi coraggiosi che ancora non si arrendono.
(di Giorgio Carta) - L'inizio del nuovo anno mi induce a riflettere sullo stato dei diritti dei cittadini con le stellette ed a chiedermi se la loro condizione volga al miglioramento o, piuttosto, al regresso.
Mi affiderò ad alcuni casi reali accaduti nell'anno appena concluso, certamente idonei a rappresentare la situazione odierna, per trarre qualche conclusione e rispondere al quesito iniziale.
La modifica apportata, prima nel 2015, poi nel 2016, all'art. 1393 del Codice dell'ordinamento militare ben esprime quale sia la tendenziale direzione della condizione giuridica dei militari italiani. Tali interventi normativi consentono oggi la destituzione (cioè il licenziamento) di un militare ben prima di una sentenza irrevocabile di condanna; addirittura, a seguito della sua mera iscrizione nel registro degli indagati, quindi, ben prima non solo di un rinvio a giudizio, ma perfino di un'eventuale richiesta del PM in tal senso e finanche della chiusura delle indagini.
In altre parole, quando ancora le indagini preliminari (aggettivo che vorrà pur significare qualcosa) sono in corso ed i relativi atti non sono ancora integralmente conoscibili dall'interessato, l'Amministrazione può destituire un militare, presumendolo colpevole di un fatto per il quale deve ancora essere processato od anche solo rinviato a giudizio. Tutto ciò, con buona pace dell'articolo 27 della Costituzione, secondo cui qualsiasi imputato andrebbe considerato innocente sino alla condanna definitiva.
La norma in esame ha già avuto ampia e tempestiva applicazione per numerosi militari, che si sono ritrovati su una strada e privi del reddito necessario per campare, ben prima di qualsiasi accertamento penale e senza che i giudici amministrativi ritenessero costituzionalmente illegittima tale procedura.
Padri di famiglia da me personalmente conosciuti hanno perso il posto di lavoro senza nemmeno poter disporre di tutti gli atti di indagine, ancora coperti dal segreto investigativo e che, magari, avrebbero potuto dimostrare l'infondatezza delle accuse.
La presunzione di innocenza viene altresì disattesa in occasione dei concorsi, sia pubblici che interni, la cui partecipazione è preclusa agli imputati che pure devono ancora essere giudicati. Con la conseguenza che nell'immediato non possono aspirare all'impiego desiderato e, a distanza di anni, l'eventuale assoluzione penale non consente loro comunque la riammissione ai concorsi perché frattanto hanno superato il limite di età previsto dai bandi.
Stesso discorso vale per i condannati che abbiano ottenuto la riabilitazione, ai quali viene parimenti impedita la partecipazione ai concorsi.
Come se non bastasse, in materia disciplinare è stato sostanzialmente abrogato il principio del ne bis in idem, in base al quale nessuno prima poteva subire due procedimenti per lo stesso fatto, dovendo valere la prima (ed unica) statuizione.
Oggi, infatti, l'evocato articolo 1393 stabilisce che, se il procedimento disciplinare si conclude senza l'irrogazione di sanzioni e il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'Amministrazione può riaprire il procedimento disciplinare per valutare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale.
Non solo, il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare può comportare la sanzione di stato della perdita del grado per rimozione, ovvero la cessazione dalla ferma o dalla rafferma, mentre è stata irrogata una diversa sanzione. In sostanza, il militare che già era stato prosciolto disciplinarmente può successivamente essere sanzionato per lo stesso fatto ed il militare che se l'era cavata con una sanzione blanda, può ancora essere destituito.
Si rammenti, inoltre, che in nessuna organizzazione lavorativa tranne che in quella militare il superiore gerarchico (nella specie il comandante di corpo) può esercitare potestà riservate alla magistratura come limitare la libertà personale dei dipendenti (con l'irrogazione di una consegna di rigore) e stabilire se i medesimi debbano essere sottoposti o no a processo penale (per i reati militari punibili fino a sei mesi di reclusione).
Sarà pur vero che l'avvocato, come il medico, viene abitualmente in contatto con i casi estremi o problematici piuttosto che con quelli normali, ma due fatti verificatisi sul finire del 2016 sono comunque riusciti a stupirmi.
Un militare è stato sottoposto a procedimento disciplinare per essersi cagionato una frattura ossea durante l'espletamento del servizio. L'accusa? quella di non aver prestato la dovuta attenzione, procurandosi così colposamente un'infermità fisica.
Un altro militare, in un momento di sconforto, si era puntato la pistola alla tempia, ma poi aveva desistito dal proposito suicidario. Egli, non solo è stato riformato, ma si trova ora indagato per violata consegna e per tentata distruzione di oggetti d'armamento militare (cioè il proiettile che - forse - stava per spararsi in testa).
Certo, a rigore, la configurabilità astratta del reato è formalmente ineccepibile (dura lex, sed lex). Sgomenta, però, che un dramma personale così grave da indurre un uomo ad un gesto estremo, lo esponga altresì all'eventualità di una detenzione in un carcere militare (per rieducarlo a cosa?).
Proseguirà anche nel 2017 l'annoso dibattito sulla sorte di tribunali penali militari, problema questo che viene dai più affrontato in modo scorretto, confondendo la loro paventata chiusura con l'abrogazione dei codici penali militari, che è cosa diversa e che non è assolutamente in discussione.
Non è chiaro a molti - che pure non esitano a pronunciarsi in materia - che l'odiosità di alcune anacronistiche fattispecie incriminatrici non verrebbe certo meno per effetto dell'eventuale chiusura dei tribunali militari. Semplicemente, altri giudici (questa volta ordinari o appartenenti a sezioni specializzate) sarebbero chiamati ad applicare quelle stesse norme dei codici militari. Ecco perché, malgrado la diffusa contraria vulgata, io mi pongo tra quelli che auspicano il mantenimento dei tribunali militari (e, piuttosto, l'estensione della loro giurisdizione, per esempio ai reati ordinari commessi dai militari), perché nella pratica si rivelano molto più equi e giusti di quanto normalmente si creda ed, anzi, spesso si trovano impegnati a mitigare, in punto di diritto, l'asprezza anacronistica di codici militari concepiti nel 1942, durante il fascismo ed in piena seconda guerra mondiale.
Nella mia esperienza presso i famigerati tribunali militari, ho certamente visto più assoluzioni ingiuste che condanne ingiuste.
Si consideri, per esempio, che, il 15 gennaio 2016, il legislatore ha abrogato il reato di ingiuria previsto nel codice penale ordinario (art. 594), ma non l'analogo reato previsto dal codice penale militare di pace (art. 226). Di conseguenza, a parità di condotta, un civile non commette reato ed un militare sì. Il che è assurdo.
Al riguardo, la Corte militare di appello - rendendosi conto di siffatta macroscopica discriminazione - ha sollevato una questione di legittimità costituzionale che verrà presto vagliata dalla Consulta.
Questo serva a consolare (parzialmente) i circa settemila forestali che, il 1° gennaio 2017, si sono svegliati militari per effetto di un'anacronistica riforma e che - da un giorno all'altro, per decreto - hanno perso numerosi diritti finora goduti in virtù del loro status civile.
Difatti, per i militari ancora vigono il divieto di riunirsi in sindacato (nonostante la contraria tendenza della legislazione europea) e la necessità dell'autorizzazione del Ministro della difesa per la semplice costituzione di associazioni e di circoli tra militari.
Tirando le somme di questa breve panoramica, non possiamo che constatare come sia tuttora in corso la progressiva erosione dei - già limitati - diritti dei militari. Ed, in tal senso, il 2016 è stato certamente un anno nefasto.
All'alba del 2017, quindi, le caserme si rivelano ancora come luoghi nei quali anche diritti costituzionalmente pacifici (come quello della presunzione di innocenza) tardano ad affermarsi ed, anzi, vengono progressivamente limitati.
La sfida di quest'anno potrebbe essere, quindi, quella di verificare se, dopo il benefico innesto nel mondo militare delle donne (notoriamente più coraggiose e battagliere degli uomini nel far valere i propri diritti), analogo benefico effetto sortirà il transito di circa 7000 forestali nei Carabinieri e (in minor misura) nella Guardia di finanza. Quanto meno al fine di riprendere una seria meditazione sullo stato dei diritti dei militari, da troppo tempo tralasciata e delegata a quei pochi coraggiosi che ancora non si arrendono.
Se il buongiorno si vede dal mattino, sono certo che - da questo punto di vista - ne vedremo delle belle.
Ringraziamo l'avv. Giorgio Carta per l'autorizzazione alla pubblicazione del suo articolo dal sito GRNET