Periodico di informazione delle Forze Armate, Forze di Polizia e Pubblico Impiego

Il nostro premier viene continuamente messo in croce per l’eccesso di decreti, maxiemendamenti, voti di fiducia. Vero: i decreti legge infiocchettati in 17 mesi dal governo Renzi sono 37, ci cadono addosso a settimane alterne. E quasi sempre il Parlamento è costretto a convertirli con una pistola puntata sulla tempia, perché l’esecutivo chiede la fiducia. E no, non va bene, obiettano i puristi della Costituzione scritta: i padri fondatori regolarono i decreti come strumento eccezionale, mica normale. Così fan tutte, controbiettano i cantori della Costituzione materiale; e in effetti Renzi non è il primo né l’unico ad abusare dei decreti legge. Per dirne una, nello stesso arco di tempo Monti ne aveva adottati 41.

C’è un altro abuso, tuttavia, di cui non parla nessuno, forse perché nessuno ne è al corrente. Ha sempre a che fare coi decreti, però di un’altra specie: quelli legislativi, che il governo può approvare - recita l’articolo 76 della Costituzione - sulla scia d’una legge di delega timbrata dalle Camere. Un altro strumento eccezionale, nelle intenzioni dei costituenti, perché la funzione legislativa spetta al Parlamento. E infatti loro, anime candide, ne previdero l’uso per le materie tecniche, rispetto alle quali solo il governo dispone delle competenze necessarie. Se serve un nuovo codice di procedura civile, per esempio, sarebbe troppo pretendere che i nostri mille parlamentari impugnino la penna d’oca del giureconsulto.

Domanda: quanti codici ha vergato il gabinetto Renzi? Risposta: i suoi decreti legislativi fin qui sono 98, il triplo dei decreti legge. Per appurarlo, basta collegarsi al sito web del Consiglio dei ministri (www.governo.it), armandosi d’un pallottoliere. E scoprendo così che gli interventi spaziano dagli ammortizzatori sociali ai fuochi d’artificio, dalle ferrovie all’importazione dei furetti. Che in una sola seduta di decreti legislativi ne vengano approvati 4 (il 17 luglio) o perfino 8 (il 27 marzo). Ma che sono anche di più quelli che s’annunziano nel prossimo futuro. E infatti, se il Jobs Act recava 5 deleghe, la riforma Madia sulla pubblica amministrazione ne ospita 18. Dove i «principi e criteri direttivi» - ai quali la Costituzione sottomette l’esercizio della delega - spesso coincidono con la parola magica degli illusionisti: «abracadabra». Dove gli «oggetti definiti» - altro requisito costituzionale - in questo caso definiscono l’universo mondo: porti, prefetture, voto di laurea, camere di commercio, dirigenza pubblica, codice militare, registro automobilistico. E dove il punto d’approdo è sempre uno: il rafforzamento del governo.

Caro dottore, troppe vitamine. Perché ogni democrazia si regge sull’equilibrio dei poteri; ma quando l’esecutivo prende il sopravvento sul legislativo, allora diventa una «democratura», per dirla con Eugenio Scalfari. Tanto più se lo strumento del dominio è la legislazione delegata, che per sua natura si consuma sotto un cono d’ombra. I decreti legge vanno pur sempre convertiti dalle Camere, sicché innescano un dibattito pubblico, in cui l’opposizione può levare la sua voce. Invece i decreti legislativi vengono cucinati nel chiuso di palazzo Chigi, in qualche conciliabolo fra il Premier e i ministri interessati; noi ne veniamo a conoscenza soltanto a babbo morto.

E i controlli? Il parere delle commissioni parlamentari non è vincolante; e infatti nel febbraio scorso, a proposito dei decreti sul Jobs Act, il governo se n’è infischiato allegramente. In quel caso protestò Laura Boldrini; adesso non protesta più nessuno, benché ogni riforma (ultimo caso: la stretta sulle intercettazioni) viaggi sui binari della legislazione delegata. Sarà che in politica, a lungo andare, la prepotenza diventa una prova di potenza. O forse sarà che ci mancano le energie d’un tempo. Nel 1992, con una svalutazione galoppante e la lira fuori dallo Sme, il governo Amato chiese 4 maxideleghe su pensioni, sanità, pubblico impiego, enti locali. Il presidente Scalfaro si dichiarò contrario ai pieni poteri dell’esecutivo, il presidente della Camera (Napolitano) idem. Ora, invece, tutti silenti. Abbiamo delegato al governo pure la parola.

 

Michele Ainis

Fonte: L'Espresso

 

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