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Chi ha percepito per anni una pensione ‘gonfiata’ per colpa di un errore di calcolo dell’ente previdenziale non deve restituire i soldi avuti in eccesso. E’ quanto hanno stabilito le sezioni di appello della Corte dei conti, che hanno depositato quattro sentenze riguardanti altrettanti ex dipendenti friulani della Difesa.
In primo grado
I casi sono molto simili. I quattro ex militari, andati in pensione tutti negli Anni ’90, si erano visti togliere dall’Inpdap, dopo oltre 10 anni, parte della loro pensione. Questo perché l’ente previdenziale, in base a un riconteggio, si era accorta di aver versato una somma superiore a quella dovuta e aveva proceduto al recupero rateale di quanto dato in eccesso. Gli interessati erano ricorsi alla Corte dei conti del Fvg, che aveva dato loro ragione: l’Ipdap non solo non doveva continuare a trattenere la rata del recupero, ma anche restituire ciò che era stato ripreso.
Ricorso alla giustizia
Contro tale sentenza, l’Inpdap (in un caso l’Inps che intanto aveva assorbito l’Istituto per i dipendenti pubblici) aveva fatto ricorso, sostenendo il proprio diritto al recupero. Le sezioni d’appello romane, però, hanno confermato il primo giudizio.
In primo luogo, i pensionati avevano percepito indebitamente la somme in eccesso, ma in buona fede (legittimo affidamento). Insomma, i quattro ex militari friulani si erano fidati dei calcoli dell’ente e non potevano riscontrare l’errore con l’ordinaria diligenza. Diverso sarebbe stato, per esempio, se la pensione fosse stata superiore allo stipendio preso durante il servizio.
In secondo luogo, l’Istituto si è reso conto dello sbaglio dopo un periodo lunghissimo (di solito i termini regolamentari per il recupero sono di tre anni). Gli assegni ‘gonfiati’ erano stati mantenuti tali non soltanto durante i trattamenti provvisori di pensione, durati fino a 11 anni, ma anche per diverso tempo dopo l’attribuzione della pensione definitiva. Di più l’amministrazione si era accorta dell’errore con molto ritardo, nonostante avesse avuto sotto gli occhi gli elementi necessari per ravvisare il problema fin dall’inizio del trattamento pensionistico.
Quindi, l’impossibilità da parte del cittadino di individuare l’errore con la normale diligenza e la ragionevole persuasione, dovuta al lungo periodo trascorso, che la pensione fosse corretta sono stati considerati dal giudice prevalenti rispetto al diritto-dovere dell’amministrazione di procedere al recupero.
Senza maggiorazioni
L’ente previdenziale, quindi, è stato condannato non solo allo ‘stop’ dei recuperi, ma anche alla restituzione delle somme già trattenute dall’assegno pensionistico. Tuttavia, divesamente da quanto stabilito in alcuni casi dal giudice di primo grado, sono stati esclusi dalla restituzione le maggiorzioni dovute alla rivalutazione e degli interessi legali, in quanto le somme non rappresentano un credito previdenziale.