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Intervista a Francesca Beneduce, criminologa e Presidente dell'Osservatorio Nazionale per i diritti e la salute dei militari e delle forze dell'ordine.
Si è tolto la vita domenica scorsa, Francesco Sabatino, 52 anni, vice sovrintendente alla Digos di Vibo. Era da solo in campagna quando ha deciso di porre fine alla sua vita sparandosi un colpo in testa con la pistola d'ordinanza. Francesco Sabatino rappresenta l'ennesimo esempio dell'esistenza di un disagio su cui occorre intervenire con concretezza e senza ulteriori rimandi. Dall'inizio dell'anno sono quaranta i suicidi solo tra gli appartenenti al comparto sicurezza, il doppio rispetto al 2018. Un male oscuro sta serpeggiando sotto le divise, la depressione, un killer invisibile che sta mietendo troppe vittime. Ne abbiamo discusso con Francesca Beneduce, criminologa e Presidente dell'Osservatorio Nazionale per i diritti e la salute dei militari e delle forze dell'ordine.
A suo parere, il fenomeno dei suicidi di appartenenti alle Forze dell'Ordine e alle Forze Armate sta assumendo connotati emergenziali?
Il trend che sta assumendo questo fenomeno, parla da solo. Le cronache ci affidano, quasi quotidianamente, notizie di suicido che coinvolgono militari e appartenenti al comparto sicurezza e difesa. Non esiste un numero definito che indichi quando scatti l’emergenza ma sicuramente ciò che sta avvenendo scuote le coscienze e ancor più la società.
Stando ai dati a disposizione dall'Osservatorio, quali sono le principali motivazioni che spingono un appartenente alle Forze dell’Ordine o alle Forze Armate a compiere il gesto estremo?
Dalle nostre rilevazioni, basate non solo sui dati ma sui colloqui con familiari, colleghi e superiori del militare, si evidenziano una serie di cause. Il mal di vivere non trae origine da un solo e unico fattore, ci sono più cause scatenanti congiunte. Insoddisfazione professionale, difficoltà di conciliazione dei carichi familiari, ricongiungimenti familiari difficili e il lungo iter per ottenerli sono alcune delle cause scatenanti che possono presentarsi singolarmente e/o associate. Una percentuale maggiore di suicidi è avvenuta indossando la divisa e nell’ambiente di lavoro. Ogni evento suicidario naturalmente è una storia a sé e va indagato con tatto verso l’autore e la famiglia, così come verso l’istituzione militare di appartenenza.
Cosa dovrebbe fare un Dipartimento di Polizia o di Pubblica Sicurezza per aiutare a prevenire depressioni, stress e altri fattori che potrebbero contribuire ad alimentare pensieri di suicidio?
Da quando abbiamo iniziato questo percorso di sensibilizzazione alla prevenzione, registriamo una maggiore attenzione delle amministrazioni militari che si stanno attrezzando con vademecum ad hoc. Parlarne in ambienti militari infrangendo di fatto un tabù, serve. Momenti di fragilità sono presenti nelle vite di ciascuno di noi; per gestire situazioni nuove e, come nel caso dei militari, estreme ed emergenziali si devono rafforzare percorsi di resilienza, istituire il supporto psicologico obbligatorio.
Se un poliziotto (o un carabiniere o un finanziere) ha bisogno di assistenza psicologica, ci sono conseguenze per la sua occupazione e la carriera futura?
È proprio la paura di perdere il lavoro o di un blocco della carriera a frenare la richiesta di aiuto. Tanto può fare chi sta intorno al soggetto interessato, dai colleghi ai familiari. Insegnare loro come riconoscere i primi segnali di chi guarda al suicidio come l’unica via d’uscita da una situazione per lui/lei imbarazzante, che equivarrebbe a una sconfitta, contribuirebbe a salvare vite umane. Le nostre capacità anche mentali sono come i muscoli, vanno allenate costantemente. Parlare di suicidio non determina nell’altra persona una spinta a compiere il gesto; al contrario, chi è in crisi e pensa a togliersi la vita può sentirsi sollevato dallo sperimentare un contatto con l’altro, si sente compreso, nel ricevere ascolto. La sfida della prevenzione del suicidio deve essere intrapresa dalla collettività, per questo nessuno deve sentirsi sollevato da questa responsabilità. Gli sportelli d’ascolto ci sono sembrati un buono strumento di prevenzione così come l’approccio interprofessionale tra medico di famiglia, psicologo e altre figure professionali. Spesso i soggetti preferiscono (quando comprendono e vogliono essere aiutati) rivolgersi a un supporto esterno rispetto all’ambiente militare, il timore, spesso fondato, è quello di vedere la carriera bloccata e il ritiro dell’arma.
A proposito di questo, quasi nell'80% dei casi si sceglie di farla finita premendo il grilletto della propria arma d'ordinanza. La disponibilità dell'arma è quindi un elemento di rischio specifico. Come far comprendere che il ritiro temporaneo dell'arma alle prime avvisaglie di malessere non comporta la perdita del lavoro?
Deve essere avviato un percorso culturale nuovo, il ritiro dell’arma veniva utilizzato come minaccia punitiva fino a non molto tempo fa. Un periodico colloquio obbligatorio con psicologi formati e senza implicazioni gravi per la carriera del soggetto può essere di aiuto, anche perché stiamo parlando di personale idoneo ad altre mansioni. È una forma di tutela per il soggetto interessato e per quanti gli stanno vicino.
Stando ai dati da voi rilevati, i suicidi riguardano operatori appartenenti ai livelli più bassi della scala gerarchica, quindi non funzionari o ispettori o sovrintendenti ma agenti e assistenti. Perché?
Non esiste un’unica risposta. Sicuramente il comparto è quello che nella linea gerarchica deve eseguire ordini, il senso di frustrazione può scattare da un momento all’altro. Ai soli fini esemplificativi ci potrebbero essere, e ci sono, superiori meno qualificati dei sottoposti ma a questi ultimi viene impedito l’avanzamento di carriera da leggi che impongono un blocco per età e ci ritroviamo con cinquantenni prossimi alla pensione ancora perfettamente in grado di svolgere ruoli di affiancamento e supporto alle giovani leve ma privi di prospettive incentivanti di carriera e di performance.
I suicidi si concentrano tra gli agenti con una maggiore età e anzianità di servizio quindi si presume che siano sposati, con figli e che prestino servizio nelle regioni di provenienza. Questo avrebbe dovuto determinare un'azione "protettiva" e invece non è così...
Dovrebbe essere stata già maturata in questa fascia d’età la capacità di adattamento allo stress. Invece, da un lato le relazioni professionali e dall’altro quelle familiari, ci si ritrova a pensare che la propria vita non abbia più prospettive di crescita. Non sempre si è ottenuto l’avvicinamento alla regione di provenienza, stiamo parlando di soggetti arruolatisi anche prima dei 20 anni, alcuni 16/17enni che non hanno più legami con la loro terra d’origine e che hanno trovato un proprio equilibrio che improvvisamente viene a interrompersi. Un corto circuito più o meno improvviso che innesca la miccia del suicidio. È necessario rafforzare anche le famiglie, renderle resilienti, spesso chi torna da lunghe missioni è diverso da colui che era partito alterando così anche i rapporti intrafamiliari.
L'età e l'anzianità implicano che gli operatori non siano più a stretto contatto con la popolazione detenuta in quanto impiegati in compiti amministrativi o in aree esterne ai reparti detentivi. Questo smentisce il fatto che sia lo stress da contatto con il disagio e la marginalità dei detenuti a determinare la scelta di porre fine alla propria vita...
Spesso trascuriamo che gli agenti di Polizia Penitenziaria vivano da reclusi anche se non più a stretto contatto con i detenuti. Sono dei ristretti anch’essi in un ambiente ristretto e confinato. Più che in altri settori viene sviluppata la sindrome da burnout che è l'esito patologico di un processo stressogeno che investe operatori e professionisti che sono impegnati quotidianamente e ripetutamente in attività che implicano le relazioni interpersonali, portando in taluni casi a una situazione di evidente squilibrio.
Ci sono degli interessi sottesi alla diffusione dei dati ufficiali relativi al fenomeno che continua a essere un tabù?
L’interesse, se di interesse possiamo parlare, è semplicemente legato al riserbo e alla segretezza di un comparto che teme di perdere agli occhi della collettività la connotazione di infallibilità e forza denotando tratti fragili. Parliamo di donne e uomini in divisa ma non per questo meno fragili di altri.
Fonte: (larivieraonline.com)